Money, fashion, power:
come sovvertire i punti cardine del sistema moda?
In occasione della Fashion Revolution Week ne abbiamo parlato con 10 brand inseriti nella nostra directory, evidenziando i cambiamenti che oggi non possono più attendere.
Di Fashion Revolution Week abbiamo già parlato lo scorso anno, descrivendo come sono nati il movimento della Fashion Revolution e il mantra Who Made My Clothes, che ci invita a domandarci cosa ci sia dietro agli abiti che acquistiamo, chiedendo al mercato una maggiore attenzione e propensione alla moda etica e responsabile.
Quest’anno la Fashion Revolution Week si terrà dal 18 al 24 aprile: un’occasione per il sistema moda di riflettere sulla possibilità di re-inventare il settore in un’ottica più giusta e salubre per il pianeta e le persone che lo abitano. Un sistema moda di cui fanno parte i grandi (e meno grandi) brand, ma anche tutti noi che con le nostre scelte di consumo quotidiane influenziamo e dirigiamo l’intero comparto.
Il tema che quest’anno guida la Fashion Revolution Week è in realtà un insieme di tre elementi, che ci porta a riflettere su come l’interazione tra essi influenzi il sistema moda.
Money, Fashion e Power: sono questi i tre elementi su cui la Fashion Revolution Week di quest’anno ci invita a riflettere per pretendere l’accesso a una moda etica e responsabile, cambiando gli asset su cui il sistema si fonda.
Sono proprio questi i temi da cui siamo partiti per una riflessione sui cambiamenti possibili nel sistema moda. Ne abbiamo voluto parlare con i rappresentanti di dieci brand inseriti nella nostra directory, selezionati perché ben incarnano gli ideali della Fashion Revolution Week, proponendo ai propri clienti una moda etica a responsabile. Sono brand molto diversi tra loro ma guidati dai medesimi valori, tra cui troviamo realtà italiane come US Underware Store e The Bad Seeds Company e altre fortemente improntate a una produzione locale come Farm to Hanger. Ci sono poi brand fortemente votati alla ricerca di materiali sostenibili come Alma & Lovis e altri che si sono focalizzati su un prodotto specifico, come goodsociety e Arctic Seas. Alcuni sono marchi naturalmente predisposti a pensare al futuro perché rivolti ai più piccoli, come Babbily e Snella, altri hanno reinventato il lusso in ottica sostenibile, come Maren Jewellery e Rozenbroek. Cosa rappresentano per loro (e per noi) i tre temi della Fashion Revolution Week?
Potere
Concentrato nelle mani di pochi nel mondo della moda tradizionale e inteso invece da questi brand come possibilità di influenzare positivamente il mercato nel richiedere una moda etica e responsabile.

Il mondo della moda tradizionale si fonda sulla concentrazione del potere e del benessere nelle mani di pochi. È vero sul lato della produzione, dove pochi grandi brand, dal fast fashion al lusso, detengono il potere di indirizzare le mode e i consumi. Ma è vero anche sul fronte dei consumatori, dove “poche” persone concentrate nelle parti più abbienti del mondo acquistano capi il cui vero prezzo viene pagato dai lavoratori sfruttati nelle altre regioni del globo.
Essere un brand che si muove nel panorama della moda etica e responsabile significa anche avere il potere di indirizzare il sistema verso una nuova strada. Si tratta di riuscire a trasmettere ai consumatori il valore dei capi sostenibili ed etici: il mondo della moda non può che cambiare un consumatore alla volta e ogni brand che si muove in questo settore può (e deve) fare la sua parte. Ma come?
Ogni brand ha la sua ricetta, ma alcuni punti sono chiari per tutti. Ad esempio, è evidente come non sia possibile continuare a sostenere i ritmi di produzione e consumo imposti dal fast fashion. “Cerchiamo di far comprendere ai nostri clienti che è meglio comprare un unico capo di qualità elevata e con un’estetica pensata per durare, piuttosto che tanti di bassa qualità: less is more”: a dirlo è Arctic Seas, brand belga di costumi e abbigliamento da spiaggia che ha fatto della lotta allo spreco il suo marchio di fabbrica, ma il concetto è condivisibile per qualsiasi marchio che abbia deciso di lavorare nel campo della moda etica e responsabile. L’importanza di limitare i volumi prodotti e di evitare sprechi sono infatti temi sottolineati da molti brand, come The Bad Seeds Company, azienda italiana che come materiale utilizza principalmente la canapa, una fibra naturale, resistente e durevole: “le nostre produzioni sono piccole e per questo riusciamo a proporre al consumatore prodotti di alta qualità”.
Etica, sostenibilità, attenzione all’ambiente: sono tutte tematiche fondamentali da approcciare ma che possono risultare respingenti se presentate nel modo errato. Lo sa bene Babbily, brand che ha voluto combattere lo spreco in uno dei settori che più vi va soggetto, quello dell’abbigliamento per bambini. Lo ha fatto con capi in grado di crescere per alcune stagioni insieme ai loro piccoli proprietari, ma non solo: “tutta la moda, sia essa sostenibile o meno, si fonda sull’estetica e sul sentirsi bene. In Babbily comprendiamo l’impatto della moda sull’ambiente, ma sappiamo anche che essere eccessivamente dogmatici o negativi in merito può risultare respingente. Per questo cerchiamo di diramare un messaggio positivo e educhiamo in modo gentile i consumatori a considerare l’impatto ambientale dei loro acquisti”.
Anche le certificazioni giocano un ruolo importante nella comunicazione con il cliente. Come giustamente sottolinea Alma & Lovis, brand tedesco di moda femminile, “non basta produrre capi d’abbigliamento sostenibili ed ecologici, è necessario spiegarlo. La nostra filosofia è proprio questa: inseriamo la certificazione GOTS sui nostri prodotti e sulle nostre comunicazioni per far comprendere ai consumatori quanto sia importante che nessuna persona o animale, ne tantomeno il nostro pianeta, debba soffrire a causa dei nostri prodotti”. Lo sanno bene anche goodsociety, primo brand di denim a livello mondiale ad essere certificato PETA, e Maren Jewellery, primo brand di gioielleria in Germania ad essere diventato una B Corp. Proprio da Maren Jewellery arriva un’altra lezione importante: “la sostenibilità non può essere il solo argomento: deve essere la base di tutto, ma non può bastare a convincere il consumatore se non c’è anche la qualità del prodotto”.
E, infine, è evidente la necessità di far emergere tutto ciò che purtroppo (se lo chiedete a un brand della moda etica e responsabile) o per fortuna (se lo chiedete a un brand del fast fashion) non arriva sugli scaffali dei negozi: la storia di chi ha creato quel capo. “Acquistare prodotti a basso costo significa far sì che qualcun altro lungo la catena di produzione non sia pagato in modo equo o lavori in condizioni molto difficili”. A sottolinearlo è Snella, brand di moda per bambini, che evidenzia una verità tanto palese quanto volentieri ancora ignorata da molti consumatori.
Trasmettere il valore di una moda etica e responsabile evidentemente non è semplice e non esiste un’unica ricetta vincente: fondamentale è basarsi su fatti, dati concreti e certificazioni, ma anche proporre capi di qualità pensati per durare. Da un lato, quindi, si tratta di rendere evidente tutto ciò che il sistema della moda tradizionale cerca di nascondere, dall’altro si deve andare contro la logica dell’usa e getta che storicamente ha guidato il settore della moda negli ultimi decenni. Una logica che, per questioni di qualità o di estetica, riguarda sia il fast fashion che il settore del lusso, ma che non è più sostenibile e deve essere cambiata. Ed è qui che il tema del potere si collega a quello della moda in senso stretto.
Fashion
Troppo e troppo in fretta: è questo il concetto che guida la moda tradizionale, che sforna nuove collezioni a un ritmo incalzante (e insostenibile). Creare capi fatti per durare, non solo dal punto di vista qualitativo ma anche estetico, è invece la mission dei brand della moda etica e responsabile.

Invertire il paradigma, facendo sì che la qualità conti più della quantità, è uno dei capisaldi della moda sostenibile: un obiettivo che si raggiunge utilizzando materiali resistenti e durevoli, ma non solo. Spesso, infatti, anche la moda di lusso tradizionale si basa su materiali tecnicamente di buona qualità, ma è qui che entra in gioco il lato estetico: i capi sono pensati per durare una sola stagione e diventare poi “superati”. Una logica valida per il settore del lusso ma che interessa anche il fast fashion, dove l’istanza qualitativa e quella estetica coesistono. Forse però è proprio il fattore estetico quello più complesso da cambiare, perché non si basa su elementi tangibili come la buona qualità di un capo, ma su concetti mentali che per anni (se non decenni) sono stati ben radicati nella mente della maggior parte dei consumatori.
Per i brand della moda etica e responsabile si tratta di invertire questa logica di pensiero, proponendo capi fatti per durare: certo questo porterà a meno acquisti, ma seguire la logica di un ricambio continuo non è più un’opzione. È quindi necessario fare scelte estetiche che possono aiutare i consumatori a comprendere come un capo possa rimanere attuale stagione dopo stagione. Ci dice ad esempio Alma & Lovis: “la durata nel tempo dei capi di abbigliamento è influenzata anche dalla loro semplicità di abbinamento: i ragionamenti che facciamo sui colori consentono ai nostri clienti di usare i medesimi capi abbinandoli ad altri di collezioni più o meno recenti, per molte stagioni consecutive”. Produrre capi che rappresentino “l’essenziale in un guardaroba, realizzando, invece di una collezione nuova ogni stagione, alcuni prodotti da aggiungere alla collezione di base considerando le richieste del mercato” è la logica che guida anche Rozenbroek. La storia di questo brand è rappresentativa: la sua fondatrice ha dato vita al marchio dopo aver lavorato per anni nel settore della moda di lusso, per poter proporre capi che rappresentassero un’alternativa e allo stesso tempo l’antitesi di questo mondo. “Non crediamo nel produrre capi d’alta moda sostenibili ma che vengono poi gettati via rapidamente: noi realizziamo capi fatti per sopravvivere al passare dl tempo”. Jade, fondatrice di Rozenbroek, ben sottolinea il problema alla base della moda di lusso tradizionale.
Combattere lo spreco è una vera sfida anche in quei settori che, per ragioni più pratiche, sono soggetti a un ricambio costante. Un caso rappresentativo è quello di Babbily che, come abbiamo accennato, produce abbigliamento per bambini che grazie ad alcuni escamotage sartoriali è in grado di crescere per un po’ insieme al bambino stesso. Si tratta qui di sovvertire una logica che nel campo dell’abbigliamento per i più piccoli è imperante, ovvero quella di capi che per ragioni pratiche non possono durare più di un tot. Babbily dimostra che questo non è necessariamente un dogma: “l’essenza del nostro brand è proprio questa: abbigliamento per bambini che sia comodo e che possa essere indossato per diversi anni, senza perdere il suo fascino né per i bambini né per i genitori”. Un altro modo per rendere più durevole l’abbigliamento per l’infanzia è quello sperimentato da Snella che nelle sue collezioni prevede esclusivamente capi unisex per facilitarne il riutilizzo da parte di più e più bambini: una scelta anche “sociale”, perché “tutti i bambini hanno lo stesso diritto di muoversi e giocare liberamente, senza essere intralciati da ciò che indossano”.
Estetica e praticità, quindi, ma anche la qualità rimane fondamentale. Lo sa bene goodsociety, che ci dice: “dalla ricerca dei materiali allo studio degli accessori alla selezione dei fornitori, per noi tutto è orientato alla qualità, che si basa a sua volta sulla sostenibilità. Cerchiamo di fare le cose in modo personale e vogliamo conoscere il dietro le quinte di tutte le aziende e persone con cui lavoriamo”. Torna, quindi, il concetto di controllo della filiera, per riportare alla luce tutto quello che il mondo del fast fashion ha abilmente nascosto per anni: come giustamente sottolinea goodsociety, brand che ha reinventato la lavorazione del jeans in ottica sostenibile, conoscere i fornitori assicura non solo che questi possano lavorare in condizioni etiche e sostenibili, ma anche un attento controllo su ogni materiale utilizzato.
E se il ciclo di vita di ogni prodotto è destinato a finire, per quanto lungo sia stato, anche pensare al dopo diventa indispensabile. Alcuni brand della moda etica e responsabile non si limitano quindi a disegnare capi fatti per durare, ma considerano il loro smaltimento fin dalla fase di progettazione. È il caso ad esempio di Farm to Hanger, brand australiano improntato ad una produzione 100% locale che utilizza esclusivamente materiali biodegradabili. Certo, l’utilizzo di materiali particolari, come quelli compostabili, riciclati o certificati comporta costi più elevati, ed è qui che ci colleghiamo al terzo e ultimo tema della Fashion Revolution Week di quest’anno.
Money
Un valore mostrato sui cartellini dei prezzi che spesso non trasmette quello reale di un capo, nascondendone i costi sociali e ambientali. Se i prezzi della moda tradizionale riflettono più l’immagine e il posizionamento del brand, quelli della moda etica e responsabile devono invece evidenziare i costi che normalmente vengono celati.

Mentre i brand della moda tradizionale traggono vantaggio da un sistema basato sul consumo eccessivo, la maggior parte delle persone che produce materialmente i vestiti e gli accessori che arrivano poi nei nostri negozi non viene pagata a sufficienza, lavora in condizioni precarie e pericolose e percepisce maggiormente le conseguenze dei cambiamenti climatici. Tutto questo, ovviamente, viene taciuto il più possibile dai brand della moda tradizionale, i cui cartellini dei prezzi riflettono più l’immagine che essi vogliono trasmettere piuttosto che il reale valore dei capi e il loro costo sociale e ambientale.
Quello dei prezzi è un tema che i brand della moda etica e responsabile devono invece affrontare quotidianamente. Da un lato, i loro prezzi si compongono in maniera diverse e devono forzatamente riflettere quegli aspetti che la moda tradizionale nasconde. Dall’altro, i capi sostenibili vengono ancora spesso percepiti come “troppo costosi”, mettendo in luce ancora una volta la necessità di un cambio di paradigma nella mente dei consumatori.
A differenza della moda tradizionale, per i brand della moda etica e responsabile lo scopo non è quasi mai la massimizzazione dei profitti, sebbene la sostenibilità dell’impresa economica sia in ogni caso necessaria. Come ci dice Alma & Lovis “ovviamente anche noi dobbiamo calcolare i nostri prezzi sulla base del costo della materia prima, della produzione e della logistica, ma non puntiamo alla massimizzazione dei profitti. Per noi è importante produrre capi di alta qualità ed etici, potendo supportare anche alcuni progetti sociali. Il nostro obiettivo aziendale è una buona vita per tutti”. Una vita buona per tutti significa innanzitutto condizioni di vita dignitose per chi quel capo lo produce. Come dice US Underwear Store “la gente deve rendersi conto che dietro il cartellino del prezzo c’è, oltre alla ricerca di materie prime a basso impatto, anche qualcuno che quel capo lo produce fisicamente e che la manodopera va pagata il giusto”.
Molti dei brand con cui abbiamo parlato cercano anche di reinvestire parte dei guadagni in progetti virtuosi: Arctic Seas sponsorizza progetti ecologici in Costa Rica e Ghana, Babbily ha recentemente donato parte dei profitti ai rifugiati ucraini, Farm to Hanger sostiene la piantumazione di alberi, goodsociety devolve fino al 25% dei profitti a progetti ambientali e sociali, Maren Jewellery dona il 3% dei profitti alla Earthbeat Foundation. Proprio quest’ultimo brand ci trasferisce un pensiero forte e impattante: “la bellezza ha un suo valore, ma non deve essere la natura a pagarne il prezzo. Siamo fortemente contrari a ogni forma di sfruttamento e a ogni lavoro che danneggi le persone che lo fanno”. Maren Jewellery sostiene così che certamente un bene di lusso ha un prezzo, ma pagarlo spetta all’acquirente e non al pianeta. Una verità scomoda da veicolare, ma anche difficile da negare.
Sono gli stessi brand della moda etica e responsabile però ad ammettere le problematiche legate ancora oggi al far comprendere ai consumatori cosa c’è dietro ai loro prezzi. “È difficile spiegare ai clienti la nostra struttura di prezzo, perché molti di loro non conoscono il modo in cui il sistema moda tradizionale sfrutta le persone, le risorse e l’ambiente. I nostri prodotti sono realizzati a mano in Portogallo da persone retribuite equamente. Anche l’utilizzo di materiali riciclati causa costi maggiori”: Arctic Seas ben evidenzia la difficoltà legata al confronto dei prezzi, perché sul cartellino c’è un numero, ma dietro c’è un mondo complesso da spiegare. “Sappiamo che i nostri capi creano valore sia per le famiglie che per l’ambiente ma, allo stesso tempo, dobbiamo risultare competitivi con i brand della moda tradizionale e affrontare l’istinto ben radicato di cercare sempre un’occasione di risparmio. Si tratta di aiutare le persone a comprendere che non sempre un prezzo più basso rappresenta un reale risparmio”: con pochi semplici dati Babbily evidenzia come acquistare un capo a un prezzo più alto, ma che potenzialmente può durare più a lungo, rappresenti in realtà un risparmio. Come però ammette il brand stesso, far comprendere questo ai consumatori non sempre è semplice. Anche se forse qualcosa sta iniziando a cambiare. “In generale riscontriamo una crescente coscienza green: sempre più consumatori sono alla ricerca di un brand come il nostro e questo ci consente di intercettarli anche senza fare costosa pubblicità, risparmiando sul marketing”: un messaggio positivo che ci arriva da The Bad Seeds Company e che speriamo possa guidare il mercato della moda di domani!
La Fashion Revolution Week rappresenta proprio un’occasione per portare più persone possibili a riflettere su come un cambiamento nel sistema della moda non sia più rimandabile.
Avviare una riflessione sui temi portanti della Fashion Revolution Week – Money Fashion Power – oggi è una responsabilità di tutti, dai brand del settore moda ad ogni singolo consumatore.
Alma & Lovis – Organico, puro, pulito
Per leggere l’intervista completa a Annette Hoffman, fondatrice e designer di Alma & Lovis, clicca qui.
Arctic Seas – Beachwear minimalista, sostenibile e di qualità
Per leggere l’intervista completa a Franky Claeys, fondatore e designer di Arctic Seas, clicca qui.
Babbily – L’abbigliamento che cresce con il tuo bambino
Per leggere l’intervista completa a Elena Miroshnichenko, fondatrice di Babbily, clicca qui.
Farm to Hanger – Slow Fashion 100% Made in Australia
Per leggere l’intervista completa a Anna-Louise Howard, fondatrice di Farm to Hanger, clicca qui.
goodsociety – Jeans reinterpretati in ottica sostenibile
Per leggere l’intervista completa a Dietrich Weigel, titolare di goodsociety, clicca qui.
Maren Jewellery – Il lusso sostenibile prende la forma di un gioiello
Per leggere l’intervista completa a Helge Maren Hauptmann, fondatrice e designer di Maren Jewellery, clicca qui.
Rozenbroek – Un’alternativa sostenibile al lusso tradizionale
Per leggere l’intervista completa a Jade Rozenbroek, fondatrice di Rozenbroek, clicca qui.
Snella – Abbigliamento per bambini, realizzato pensando ai bambini
Per leggere l’intervista completa a Hannah Granström, fondatrice e CEO di Snella, clicca qui.
The Bad Seeds Company – La canapa da indossare
Per leggere l’intervista completa a Barbara Trenti, fondatrice di The Bad Seeds Company, clicca qui.
US Underwear Store – Un negozio sostenibile nel cuore di Parma
Per leggere l’intervista completa Valeria Cremisi, fondatrice di US Underwear Store, clicca qui.