Foto di Rezza Estily/Greenpeace

Fashion System

La filiera del Fast Fashion

Introduzione al sistema moda

L’industria della moda, nel suo sistema globale, ha un enorme impatto ambientale e apre moltissime questioni etiche legate ai lavoratori del settore. 

Con l’avvio della produzione di massa, nel ventesimo secolo, tutto è cambiato. Le industrie hanno iniziato a produrre a ritmi sempre più serrati, fino ad oggi, dove il consumo è ormai al livello dello spreco. Buttiamo via cibo, vestiti magari indossati una sola volta, e lo stesso facciamo con tutti gli altri prodotti che compriamo, solo per i nostri bisogni compulsivi ed effimeri. L’industria della moda (settore tessile compreso) ha un ruolo importante nell’economia, con più di 1 miliardo di lavoratori in tutto il mondo e 2,7 milioni solo in Europa.1 La vendita di abbigliamento aumenta sempre di più di anno in anno, e gettiamo via i vestiti solo dopo pochi utilizzi e senza rimpianti, tanto li abbiamo pagati poco… Si stima che il consumo di vestiti, da 62 milioni di tonnellate nel 2017, passerà a 102 milioni di tonnellate nel 2030, con un aumento del 63%.2 L’industria della moda, nel suo sistema globale, ha un enorme impatto ambientale soprattutto se si considera come vengono coltivate le fibre, i processi di tintura, la manifattura dei capi, il trasporto della merce attraverso oceani e terre, i rifiuti. Inoltre ad ogni stadio della produzione, ci sono da tenere in conto le problematiche questioni etiche legate ai lavoratori del settore.

Il settore moda contribuisce per l’8% alle emissioni globali di anidride carbonica nell’atmosfera, pesando direttamente sui cambiamenti climatici.3 Inoltre, i processi che richiedono più energia per la produzione di un capo, come la fase di tintura, rappresentano il 36% delle emissioni di CO2 dei capi tessili.4
Di fatto, la moda è una delle industrie più inquinanti al mondo.

Alcuni dati

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lavoratori nel settore moda
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lavoratori nella moda in Europa
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consumo di vestiti nel 2017
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consumo di vestiti nel 2030
Stabilimento tessile in Cina, Lu Guang/Greenpeace
Lavoro minorile in Cina, Lu Guang/Greenpeace
Fabbrica di jeans in Cina, Lu Guang/Greenpeace

Fast Fashion

Cos’è il fast fashion? È quel sistema che permette di far arrivare al mercato, molto rapidamente e con continuo ricambio, capi che esprimono i più recenti trend moda, rendendoli appetibili anche grazie a prezzi talvolta molto bassi.

In Europa il fast fashion ha avuto successo fin dagli anni ’90: nuovi vestiti economici sempre in linea con i trend del momento. In questo modo un circolo vizioso si innesta: consumatori sempre in cerca dei prezzi più bassi e brand alla ricerca di nuovi Paesi dove la manodopera ha un prezzo più basso, per soddisfare i clienti, meglio e più velocemente dei loro competitor. Più sono le richieste di prodotti, e più aumenta la pressione in tutta la filiera produttiva, dove le condizioni lavorative peggiorano sempre di più.

Ciò che sta succedendo, con l’aumento del fenomeno del fast fashion e la separazione geografica della produzione dal consumo, è un diretto risultato del cambiamento di un accordo internazionale del commercio: l’accordo Multi-fibre. 

Introdotto nel 1974, esso regolava il commercio internazionale di prodotti tessili e abbigliamento e prevedeva l’imposizione di certi standard qualitativi da soddisfare per l’esportazione dai Paesi in via di sviluppo ai Paesi sviluppati. Nel 2005 il Multi-fibre Arrangement (MFA) e il General Agreement on Trade and Tariffs (GATT) vennero aboliti, eliminando tutte le restrizioni qualitative in atto. Inoltre prima del 2005 i mercati erano protetti dalla competizione con importazioni più economiche, ma ora anche i prodotti più economici possono entrare nel mercato, determinando un’altissima competizione. 

È proprio in questo momento che i Paesi in via di sviluppo entrano nel settore manifatturiero e sono proprio loro che oggi producono le quantità maggiori di tessuti e abiti per l’esportazione. Nel 2010 Cina, Macedonia e India hanno aumentato le loro esportazioni verso Stati Uniti ed Europa, rispettivamente del 73%, 56% e 45%, seguiti da Cambogia, Indonesia e Bangladesh.5 La Turchia, invece, gioca un ruolo molto importante per quanto riguarda la produzione di tessuti a livello internazionale: vi si riforniscono molti grandi nomi della moda.

Bangladesh inquinamento delle acque a causa di concerie
Inquinamento del fiume Buriganga, Bangladesh, GMB Akash/Panos

È in questo frangente che la filiera produttiva incomincia a diventare sempre più complessa e lunga, rendendone difficile il controllo. Proprio per questo motivo il sistema moda è basato su immagini e sogni, mentre evita di raccontare quelli che sono i processi di produzione.

La crescita del fast fashion è stata inoltre facilitata dall’utilizzo, sempre più massiccio, del poliestere, che oggi compone il 60% dei vestiti prodotti.6 Questo tessuto è destinato a diventare sempre più diffuso; puro o mischiato con altre fibre, la produzione di poliestere genera grandi quantità di anidride carbonica e lascia dietro di sé rifiuti non biodegradabili. Inoltre il poliestere inquina fiumi e mari anche mentre lo si sta utilizzando: un capo di poliestere lavato in lavatrice rilascia fino a 1 milione di fibre di microplastiche.7

Il mondo della moda ha creato il proprio linguaggio per farsi desiderare e sognare dai consumatori. E così la comunicazione, dalle pubblicità con le top model ai video, porta la dimensione materiale del prodotto in secondo piano. 

Questo immaginario creato dal settore moda fa presa sul consumatore, che infatti è focalizzato sul brand, sui valori che l’acquisto di un prodotto porta con sé, e non sul reale prodotto e sulla sua storia. Sappiamo che la moda ha un’importante presa sulle persone: i vestiti sono importanti.

Il poliestere inquina fiumi e mari anche mentre lo si sta utilizzando: un capo di poliestere lavato in lavatrice rilascia fino a 1 milione di fibre di microplastiche.

Ma come funziona?

Le multinazionali usano la formula del subappalto, così da non essere responsabili delle condizioni dei lavoratori e non farsi carico di qualunque rischio legale legato alla produzione. In particolare, le compagnie vanno in cerca delle cosiddette “free zones” (zone libere): aree con condizioni convenienti per i subappaltatori, come il libero utilizzo di edifici e terreni, nessuna tassa e dazi, nessuna limitazione per la tutela ambientale, lavoratori a basso costo e servizi di polizia garantiti.

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, sono 850 le “free zones” al mondo, che coinvolgono 27 milioni di lavoratori. Queste zone sono concentrate principalmente in Asia, Sud e Centro America.
L’economia è guidata dalle multinazionali. Su una popolazione di 7 miliardi, solo il 35% ha soldi da spendere.8 Quindi le multinazionali competono fra loro in un mercato limitato, e il risultato è una competizione basata sul taglio dei costi produttivi.
Anche se molte aziende vogliono farci credere che ascoltano i nostri bisogni, che sono sensibili ai diritti delle persone e rispettose dell’ambiente, in realtà spesso i lavoratori sono trattati come schiavi, le acque e l’aria contaminate, i nostri vestiti pieni di sostanze chimiche nocive, i regimi oppressivi resi complici, i contadini costretti alla miseria. Ma la cosa più tragica è che tutti questi abusi vengono commessi con la nostra complicità: ci lasciamo allettare e compriamo, compriamo, compriamo!

Giovani lavoratrici in uno stabilimento tessile in Cina, Lu Guang/Greenpeace

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fast fashion
La filiera del fast fashion
Cotone e pesticidi
Cotone intossicato
Lavoratori del settore moda sfruttati
Condizioni dei lavoratori
Sostanze chimiche nei vestiti
Sostanze chimiche pericolose
Fattorie da pelliccia
Industria crudele

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Cotone intossicato

Una produzione fondata sui pesticidi

Il cotone rappresenta l’80% della produzione globale di fibre naturali ed è dunque importante conoscere come avviene la sua coltivazione, raccolta e trasformazione in filato.

Il 99% dei produttori di cotone vive e lavora nei Paesi del Sud del mondo in condizioni di povertà.9 Oggi il più grande produttore di cotone è la Cina, seguito da India e Stati Uniti. Sono oltre 100 i Paesi dove il cotone viene coltivato, coprendo il 2,4% delle terre coltivabili.10

Non solo il cotone è una delle colture che ha bisogno di più acqua per essere coltivato, ma c’è un altro risvolto negativo: ogni anno, 2 miliardi di dollari in pesticidi chimici vengono riversati sui campi di cotone,11 equivalenti al 16% di tutti gli insetticidi utilizzati globalmente e il 6% dei pesticidi.12 Le conseguenze sono catastrofiche: i lavoratori vengono costantemente avvelenati, le terre non sono più fertili e le falde acquifere sono contaminate.

Basta una sola goccia di Aldicarb (pesticida chimico) sulla pelle per far morire una persona,13 sebbene oggi vengano impiegati altri prodotti meno tossici. I lavoratori non hanno protezioni adeguate durante il lavoro e utilizzano l’acqua dei fiumi e laghi vicini per le loro necessità. Inoltre, più i terreni sono poveri, più pesticidi verranno utilizzati. Nel nome del profitto, l’Aldicarb, messo in commercio con il nome Temik, è ancora comunemente utilizzato per la produzione del cotone in 26 Paesi.14

È importante ricordarsi che quando si parla di lavoratori, sono inclusi anche bambini di 10 anni: non è raro in Paesi come l’India e il Pakistan.
Nei Paesi in via di sviluppo, le famiglie molto povere e sprovviste di terreno, sono costrette a chiedere un prestito ai grandi proprietari terrieri, che hanno molto spesso anche il ruolo di banchieri/usurai. I proprietari terrieri concedono i soldi, ma in cambio esigono che un membro della famiglia lavori per loro. E questo, il più delle volte sarà costretto a lavorare a vita per i proprietari terrieri, perché gli interessi sono troppo alti: una condizione di schiavitù che a volte si tramanda di generazione in generazione.

Ma chi compra questo cotone?
Il 45% della produzione globale di cotone viene acquistato da Stati Uniti ed Europa.15
Quando compriamo una semplice maglietta in 100% cotone, se non siamo informati, come facciamo a sapere che solo per quella t-shirt sono stati utilizzati 150 grammi di pesticidi e fertilizzanti e che per ogni chilogrammo di cotone sono stati impiegati tra i 20.000 e i 40.000 litri di acqua?16

Lago d'Aral in Uzbekistan, NASA

Il cotone Uzbeko che prosciuga il lago d’Aral

L’Uzbekistan è il quinto più grande produttore di cotone al mondo. Gli impatti sociali e ambientali di questo Paese possono essere riassunti nel prosciugamento del lago d’Aral, nella regione del Karakalpakstan, principalmente per fornire irrigazione ai campi di cotone. Questo, che era uno dei 4 laghi più grandi del mondo, occupa oggi il 10% del suo volume originario, con conseguenze disastrose sull’ecosistema e causa di “rifugiati ambientali”.

Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente ha definito il prosciugamento dell’Aral come “uno dei disastri più sconvolgenti del ventesimo secolo”.

Ogni anno per la produzione del cotone viene utilizzata tantissima acqua: 16 volte più che nel Regno Unito.17 Inoltre si stima che il 60% dell’acqua destinata ai campi, non li raggiunge, a causa di tubi guasti e perdite.18

Prosciugamento del lago d’Aral 1989 – 2014, NASA
Lago d’Aral, Pascal Mannaerts

L’estrazione intensiva dell’acqua del lago, inoltre, ne aumenta la salinità, con conseguente morte di molti pesci nativi. Anche le foreste circostanti, un tempo lussureggianti, occupano oggi solo il 10% della loro estensione originaria, con conseguenze dirette sulla vita selvatica.

È da 2000 anni che gli abitanti della regione vivono sulle rive del lago d’Aral, facendo della pesca la loro principale fonte di sussistenza e lavorando nelle industrie ittiche. Ma l’attuale situazione ha costretto alla povertà il 50-70% dei Caracalpachi che vedono anche la loro salute compromessa da bufere di sale e pesticidi.

Il declino del lago ebbe inizio con lo sfruttamento da parte dell’Unione Sovietica che produceva in modo intensivo, a metà degli anni ’70, un quarto del cotone globale.

Da allora e fino ad oggi, lo Stato si avvale del lavoro minorile forzato: ogni anno le scuole vengono chiuse 2-3 mesi e i bambini di 10 e 11 anni vengono portati nei campi di cotone, dove sono obbligati a raccogliere un certo quantitativo per non essere castigati. Nella gran parte dei casi questo lavoro non viene retribuito ma anzi i bambini devono recarvisi a piedi, spesso percorrendo diversi chilometri. Anche gli insegnanti, i soldati e tutti gli abitanti della zona sono costretti a lavorare nei campi per raccogliere questo “oro bianco”.

Il cotone uzbeko è stato ed è ancora oggi al centro di molte campagne internazionali, proprio per il lavoro minorile forzato e per il problema dell’acqua. Fortunatamente, grazie alla pressione di organizzazioni internazionali, alcuni brand della moda come H&M, Levis e Puma non fanno più uso del cotone uzbeko.

Lavoro minorile in Uzbekistan, Uzbek-German Forum for Human Rights

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Cotone e pesticidi
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Lavoratori del settore moda sfruttati
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condizioni dei lavoratori

Chi produce i nostri vestiti?

La paga di un lavoratore del settore moda incide meno del 3% sul prezzo finale del prodotto, mentre i profitti per un brand possono essere ben 4 volte superiori.

Abbiamo sentito tutti almeno una volta di come siano terribili le condizioni dei lavoratori nel Sud del mondo, ma è importante esserne ben consapevoli.

Gli incidenti sono pressoché quotidiani e non solo nelle fabbriche tessili. Come riporta F. Gesualdi nel suo “Manuale per un consumo responsabile” il 19 novembre 1993, 87 giovani donne sono morte carbonizzate, oltre 40 ferite e alcune di esse rese invalide a vita, a seguito di un incendio sviluppatosi nella fabbrica di giocattoli dove lavoravano, a Kuiyong, in una piccola cittadina vicino a Hong Kong.19

La fabbrica, che fungeva anche da dormitorio, si chiamava Zhili, ed era di proprietà di una società di Hong Kong che produceva i giocattoli per un noto marchio italiano.

Sempre questa pubblicazione20 racconta il caso della fabbrica taiwanese Feng Tay, produttrice di scarpe da ginnastica per un noto brand internazionale, dove si lavora 11 ore al giorno, 7 giorni su 7, con ferie e pagamento degli straordinari inesistenti, licenziamento in caso di malattia e altri soprusi.

Si potrebbe pensare che tali condizioni di lavoro sussistano solo nelle fabbriche che producono quei capi che poi il consumatore acquista a bassissimo prezzo, e invece a quanto pare brand famosi e prezzi elevati non sono sempre garanzia di correttezza.

Si pensi che normalmente la paga di un lavoratore del settore moda incide meno del 3% sul prezzo finale del prodotto, mentre i profitti per un brand possono essere ben 4 volte superiori ai costi di produzione.21 

Sandblasting in Dhaka, Bangladesh, Clean Clothes Campaign

Il caso dei jeans decolorati

La tecnica utilizzata per ottenere jeans dall’aspetto scolorito e invecchiato è la sabbiatura (sandblasting), in cui una sabbia composta da cristalli di silicone viene sparata sui jeans. L’esposizione a queste sostanze è però molto pericolosa per la salute dei lavoratori, che potrebbero contrarre la silicosi, una malattia che porta alla morte in un periodo compreso tra i 6 mesi e i 2 anni. Nel 2010 sono stati 550 i lavoratori affetti da silicosi, ma si stima che siano oltre 5.000 le vittime del sandblasting, attività che coinvolge tra i 5.000 e i 10.000 lavoratori, non consapevoli del rischio a cui sono esposti.22

Esistono tecniche alternative per ottenere il medesimo risultato, come il laser o lo stone-washing, ma sono più dispendiose e quindi non convenienti agli occhi delle aziende.

L’utilizzo del silicone venne bandito in Europa negli anni ’60, un divieto che ha indotto le compagnie a spostare la produzione in altri Paesi.

Stabilimenti di filatura nel sud dell’india*

Famiglie povere delle zone rurali vengono convinte da reclutatori a mandare le proprie figlie negli stabilimenti di filatura, con la promessa di ricevere in cambio un buon lavoro con alloggi confortevoli, cibo gratuito, opportunità di imparare attraverso lezioni e un pagamento forfettario dopo 3 anni di lavoro.

Questa sembra una proposta allettante alle famiglie povere che non possono provvedere a dare una vita dignitosa ai propri figli. Il 60% dei lavoratori provenienti dagli strati più poveri della società indiana comincia a lavorare da minorenne.

Si tratta soprattutto di donne, perché più docili e meno inclini, rispetto agli uomini, a unirsi ai sindacati e in generale a battersi per i propri diritti. Inoltre la maggior parte dei lavoratori non conosce i propri diritti e raramente il lavoro è regolamentato da un contratto.

Lavoratori tessili a Dhaka, Bangladesh, 2008, Taslima Akhter
11 lavoratori tessili condividono la stessa stanza, Dhaka, Bangladesh, Taslima Akhter

Una volta in stabilimento, i lavoratori possono uscirne solo 2 volte all’anno (in alcuni stabilimenti sono consentite 2 uscite al mese, in compagnia di un guardiano). Le guardie sono solitamente presenti in stabilimento, per assicurarsi che nessuno entri, nessuno esca o provi a scappare.

I telefoni cellulari sono vietati: solo per chiamare le famiglie è consentito usare, sotto sorveglianza, i telefoni dello stabilimento, mentre altre chiamate non sono permesse.

Gli alloggi consistono in ostelli situati al piano terra delle fabbriche, dove è normale trovare più di 30 ragazze nella stessa stanza e altrettante condividere un solo bagno. “Soggiornare” in questi ostelli è obbligatorio per i lavoratori che arrivano da altri villaggi. Spesso i materassi non sono forniti dallo stabilimento e quindi ciascuno si deve procurare il proprio.

Il salario mensile va dai €20 ai €52: la maggior parte dei lavoratori spedisce i soldi alle proprie famiglie per il loro sostentamento, rimanendo così senza nulla da mettere via per sé. Inoltre, in alcune fabbriche il cibo non è gratuito e il suo costo viene sottratto dal salario.

Il lavoro all’interno degli stabilimenti di filatura è molto duro: i macchinari sono in moto 24 ore al giorno e l’atmosfera è molto calda ed estremamente umida (il cotone ha bisogno di essere mantenuto umido, per evitarne la rottura).

Questo ambiente inoltre non è salubre e i lavoratori inalano costantemente polvere di cotone, rilasciata nell’aria dai macchinari che trasformano il cotone in tessuto. Una breve esposizione a questa polvere può causare febbre, problemi respiratori, tosse e brividi; una lunga esposizione invece porta a problemi respiratori permanenti, come bronchiti acute. 

Stabilimenti produttivi di abbigliamento a Keraniganji in Dhaka, Bangladesh, Claudio Montesano Casillas
Donne indiane, Sudhanshu Malhotra/Greenpeace

I lavoratori non possono rinfrescarsi durante il giorno, perché hanno solo 10 minuti di pausa al bagno prestabiliti, per un massimo di 3 volte al giorno. 

Ogni giorno i lavoratori devono soddisfare la produzione richiesta, altrimenti devono lavorare ore extra, senza venire pagati. 

I lavoratori sono tutte giovani donne e i supervisori tutti uomini. Quest’ultimi controllano l’andamento della produzione e adottano atteggiamenti autoritari e violenti verso le lavoratrici. 

Lunghe ore lavorative in un ambiente insidioso influenzano profondamente la salute mentale delle lavoratrici: è proprio per questo motivo che molte donne commettono suicidio. 

Bangladesh: incendi e il disastro di Rana Plaza

Ciò che successe nel 1993 nella fabbrica di giocattoli in Kuiyong, non è un incidente isolato. Per esempio in Bangladesh, il Paese con il più basso salario al mondo, tra il 2006 e il 2009, sono avvenuti 213 incendi all’interno delle fabbriche di abbigliamento.23

Grazie a costi di produzione bassissimi, gli ordini sono massicciamente aumentati negli anni e i lavoratori vengono sfruttati, dovendo produrre il più possibile in minor tempo possibile, all’interno di edifici la maggior parte delle volte pericolosi. È all’ordine del giorno trovare edifici a cui sono stati aggiunti ulteriori piani: strutture che sopportano più peso del dovuto.

Il 24 novembre 2012 un incendio è esploso all’interno della fabbrica Tazreen Fashions Limited, a Dacca, capitale del Bangladesh. Da quel giorno, sono stati segnalati altri 28 incendi in stabilimenti tessili.24

L’80% degli incendi che avvengono all’interno di tutti gli stabilimenti in Bangladesh è dovuto a impianti elettrici difettosi.

Tazreen Fashion Limited

L’incendio alla Tazreen Fashions Limited, scoppiato alle 18:30, ha ucciso 112 lavoratori (la maggior parte donne), con una stima di 100-300 feriti.25 L’incendio aveva avuto origine dal piano terra dello stabile di 6 piani, dove erano immagazzinati tessuti e filati. Nonostante il suono della campana antincendio, i supervisori di ogni piano ordinarono ai lavoratori di continuare a lavorare. Solo dopo 30 minuti vennero chiamati i soccorsi e per l’arrivo dei pompieri ci vollero altri 20 minuti, quando il fuoco aveva ormai raggiunto il quinto piano. La causa dell’incendio non è tutt’oggi chiara, come non si sa con certezza il numero di morti e feriti. Sappiamo però che l’80% degli incendi che avvengono all’interno di tutti gli stabilimenti in Bangladesh è dovuto a impianti elettrici difettosi.26

Incendio all’interno di una fabbrica di abbigliamento a Dhaka, Bangladesh, Mahmud Hossain Opu

Ma di chi è la responsabilità di ciò che è successo, e succede ancora oggi, all’interno delle fabbriche di abbigliamento in tutto il mondo?

Non solo è dei proprietari degli stabilimenti, dei buyer, dei brand coinvolti, ma è anche nostra, a causa del nostro consumismo.

Siamo noi consumatori ad entrare nei negozi e comprare abbigliamento ogni settimana, tanto costa poco…

E gli incidenti si verificano continuamente, a volte senza che l’informazione arrivi nei Paesi occidentali: chi ha mai sentito parlare del crollo di Rana Plaza, avvenuto sempre a Dacca nel 2013?

Rana Plaza

Nella congestionata e sovraffollata capitale del Bangladesh, dove il ritmo della vita è dettato dal ritmo produttivo delle fabbriche, si trovava il grande stabilimento Rana Plaza, 8 piani per fabbricare a ritmi serratissimi abbigliamento destinato ai negozi occidentali, con forti penali in caso di ritardi nelle consegne.

Il 23 aprile 2013 vennero scoperte tre crepe in altrettante colonne portanti dell’edificio. Nessuno era a conoscenza dei lavori illegali che, 6 anni prima, avevano aggiunto 3 piani all’edificio originario di 5 piani.

L’analisi delle crepe portò gli ingegneri chiamati immediatamente per un’ispezione a dichiarare insicuro l’edificio e i lavoratori vennero mandati a casa.

Durante la notte, però, l’edificio venne ispezionato nuovamente e venne dichiarato, dopotutto, accessibile: i lavoratori, sebbene preoccupati e spaventati, dovettero rientrare nell’edificio.

La mattina del 24 aprile l’edifico Rana Plaza crollò, uccidendo più di 1.138 persone e causando oltre 2.000 feriti.27

Nei giorni successivi ci furono dimostrazioni e scioperi, con i lavoratori tessili in strada a chiedere migliori condizioni; dopo una sola settimana, però, tutto tornò alla normalità.

Il crollo di Rana Plaza è stato uno degli incidenti peggiori avvenuti all’interno degli stabilimenti di abbigliamento.

Molti noti brand erano coinvolti direttamente con Rana Plaza, ma solo alcuni concessero risarcimenti.

Crollo Rana Plaza Bangladesh lavoratori di abbigliamento morti
Incidente di Rana Plaza lavoratori di abbigliamento feriti

Foto di Taslima Akhter

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fast fashion
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Sostanze chimiche nei vestiti
Sostanze chimiche pericolose
Fattorie da pelliccia
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sostanze chimiche pericolose

Inquinamento delle acque

L’acqua è essenziale per l’umanità, ma è una delle sostanze più contaminate al mondo.

Anche in questo caso il settore moda, con le sue industrie, ha un importante ruolo nella gestione delle acque e non sta agendo positivamente: i fiumi vengono utilizzati dalle industrie della filiera come scarichi personali. 

Gli stabilimenti tessili utilizzano diverse sostanze chimiche pericolose nei vari stadi di produzione, dalla tintura al confezionamento. Inoltre non solo vengono contaminate le acque, ma anche gli stessi vestiti che poi noi indossiamo.

Gli effetti che queste sostanze chimiche pericolose possono causare sono spesso irreversibili e potrebbero manifestarsi solo tardi nel ciclo di vita degli esseri viventi.

I brand avrebbero il potere di eliminare queste sostanze tossiche dai loro vestiti e guidare la società al cambiamento, ma la strada verso una produzione ecologica è ancora lunga. Ricorda però che noi, in quanto consumatori, potremmo influenzare i mercati e cambiare le cose in meglio!
Acque contaminate, Indonesia, Andri Tambunan/Greenpeace

Quali sostanze chimiche sono presenti negli abiti che indossiamo? 28

PFC (COMPOSTI PERFLUORURATI)
Utilizzati dall’industria tessile per rendere i vestiti resistenti all’acqua, alle macchie d’olio e perfino al fuoco, queste sostanze chimiche possono entrare nel sangue, nel fegato e interferire con gli ormoni che regolano la riproduzione; sono anche cancerogene. 

FTALATI
Rendono più morbida la plastica, in particolare il pvc, ma poi queste sostanze chimiche finiscono nell’ambiente, vengono ingerite da uomini e animali e penetrano la pelle umana. Alcuni ftalati possono interferire con gli ormoni e possono causare deformazioni agli organi riproduttivi maschili.

NP (NONILFENOLO)
Particolarmente pericolosa perché non si distrugge facilmente una volta rilasciata nell’ambiente, questa sostanza chimica può causare danni per un periodo di tempo molto lungo. Gli NP proliferano nelle acque e nell’aria, scalano la catena alimentare finendo negli esseri umani e negli animali e causando diversi tipi di danni. In particolare, possono imitare gli estrogeni (ormoni femminili) e quindi disturbare l’equilibrio ormonale negli organismi viventi.

NPE (NONILFENOLI ETOSSILATI)
Utilizzati per unire insieme acqua e tinture nei processi di manifattura, queste sostanze chimiche restano nei vestiti che poi vengono venduti in tutto il mondo. Quando utilizziamo la lavatrice, queste sostanze entrano nel sistema di scarico pubblico e quindi raggiungono fiumi e mari, trasformandosi nei più pericolosi NP.
Ci sono restrizioni per l’uso degli NP e NPE in Europa dal 2005, e simili restrizioni negli Stati Uniti e Canada; ma non c’è alcuna restrizione nel vendere vestiti che contengono tracce di queste sostanze chimiche tossiche.

CADMIO
Impiegato per creare tinture e pigmenti colorati per i tessuti, il cadmio è molto pericoloso anche a basse concentrazioni e può causare gravi danni a ossa e fegato. È inoltre in grado di sopravvivere all’interno di organismi e nell’ambiente per molto tempo.

Acque reflue scaricate da una fabbrica di denim a Xintang, Cina, Lu Guang/Greenpeace

La campagna detox di Greenpeace

Nel 2011 Greenpeace International ha lanciato la campagna Detox, chiedendo ai brand di disintossicare (“detox”) le nostre acque e i nostri vestiti. Un anno dopo questa organizzazione ha condotto un’indagine per scovare queste sostanze tossiche, analizzando 141 capi di noti brand provenienti da 29 Paesi diversi (i risultati completi sono consultabili nel report “Toxic Threads. The Big Fashion Stitch-Up”).

I vestiti analizzati erano stati acquistati nei negozi: Benetton, Jack & Jones, Only, Vero Moda, C&A, Diesel, Esprit, Gap, Giorgio Armani, H&M, Zara, Levi’s, Victoria’s Secret, Mango, Marks & Spencer, Metersbonwe, Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Vancl and Blazek. In ognuno di questi capi, Greenpeace ha trovato sostanze chimiche, soprattutto NPE.

Lavoratore in una fabbrica di lavaggio del denim a Xintang, Cina, Lu Guang/Greenpeace
Stabilimento di tintura a Shaoxing, Cina, Lu Guang/Greenpeace

Secondo uno studio inglese29 il 99% dei NPE presenti nei vestiti viene rilasciato nelle acque di scarico durante i primi due lavaggi, mentre altre sostanze chimiche, come i ftalati, entrano nell’ambiente quando i vestiti vengono accumulati nelle discariche.

Concentrazioni molto alte di ftalati sono state trovate da Greenpeace in 4 campioni (i livelli erano del 37,6% quando la soglia accettabile è di 0.5%): in una maglietta di Tommy Hilfiger made in Bangladesh, venduta in Australia; in una maglietta Tommy Hilfiger made in Filippine, venduta negli Stati Uniti; in una maglietta di Giorgio Armani made in Turchia, venduta in Italia, e in mutande di Victoria’s Secrets made in Sri Lanka, vendute negli Stati Uniti.

Perfino i vestiti per bambini contengono sostanze chimiche tossiche: il report di Greenpeace “A Little Story about a Fashionable Lie” del 2014 mostra che molti brand del lusso producono vestiti con sostanze chimiche pericolose anche per i bambini. Inoltre tra i prodotti testati, 7 contenevano tracce di NPE e 4 presentavano grandi concentrazioni di questa sostanza chimica.

Questi prodotti presentavano l’etichetta “made in Italy”; come scritto precedentemente l’uso degli NPE è stato bandito in Europa nel 2005, quindi le etichette non assicurano che il prodotto sia effettivamente fatto unicamente nel Paese indicato. O forse in questo caso il vestito è stato fatto in Italia e ciò mostra un’inefficacia delle leggi e che il controllo delle sostanze chimiche non avviene come dovrebbe.

Le più alte concentrazioni di NPE sono state trovate in ballerine di Louis Vuitton made in Italy, vendute in Svizzera. Questa è la dimostrazione che le nostre aspettative sui brand di lusso non sempre sono raggiunte e che quindi evitare solo i prodotti “Made in China” (a causa di scandali passati) può non essere risolutivo.

Acque reflue tossiche di stabilimenti tessili in Sumedang, Indonesia, Rezza Estily/Greenpeace
Lavoratore immerso in sostanze chimiche tossiche in uno stabilimento di tintura, Dhaka, Bangladesh, Pascal Mannaerts

Il sistema di fast fashion che stiamo vivendo, non solo è sinonimo di vestiti di bassa qualità e prezzi bassi, ma implica anche un grande spreco di energie per produrre ogni singolo prodotto, vite di lavoratori messi in pericolo, per ottenere un ammasso di vestiti intossicati da sostanze chimiche pericolose che si diffondono nell’ambiente. Più compriamo e più sostanze chimiche dannose vengono diffuse ovunque.

Inoltre il fast fashion si sta diffondendo al di fuori dei mercati occidentali tradizionali: per esempio Zara ha negozi dal 2010 in Bulgaria, Kazakistan e India, e dal 2011 a Taiwan, Azerbaijan, Sud Africa e Perù.
Come Greenpeace sta cercando di dire da molti anni: “Come cittadini del mondo e consumatori dobbiamo pretendere che i governi e i marchi agiscano ora per disintossicare i nostri fiumi, i nostri vestiti, e in definitiva il nostro futuro.”

Il sistema di fast fashion, non solo significa vestiti di bassa qualità e prezzi bassi, ma significa anche vestiti intossicati da sostanze chimiche pericolose

Acque contaminate di Cina e Messico

Si racconta che è possibile capire i colori predominanti delle future stagioni, guardando il colore dei fiumi cinesi e messicani. Una settimana potrebbero essere blu, l’altra settimana verdi e poi rosa, neri, e rossi.

Le industrie tessili sono considerate la causa principale dell’inquinamento dei fiumi in Cina. È stato stimato che il 70% dei fiumi, laghi e risorse idriche è contaminato a un livello così alto, da posizionare la Cina come uno dei Paesi più inquinati al mondo per quanto riguarda il sistema idrico.30

In Cina i tubi di scarico delle industrie tessili sono localizzati sul delta del fiume Yangzte, il fiume più lungo della Cina che porta acqua a 20 milioni di persone, e sul delta del Pearl River, il terzo fiume cinese per lunghezza. Questi fiumi contaminati sono pericolosi per la salute e per l’ambiente. Alcune delle sostanze chimiche rilevate in questi fiumi sono bandite in Europa.

Bambini che nuotano in acque reflue tossiche, Rezza Estily/Greenpeace
Inquinamento del fiume San Juan in Messico, Guadalupe Szymanski/Greenpeace

Le multinazionali che comprano da questi stabilimenti, si devono prendere la responsabilità di tutte le sostanze chimiche che avvelenano i fiumi e gli abitanti locali.

La stessa situazione presente in Asia, accade in Messico, altro importante Paese per quanto riguarda la manifattura tessile. Il Messico è uno dei più grandi produttori di denim al mondo ed è il principale fornitore del mercato statunitense, grazie anche alla vicinanza geografica (più vicino rispetto alla Cina).

Esattamente come in Cina, le acque messicane sono inquinate: il 70% dell’acqua è inquinata, di cui il 31% estremamente avvelenata.31

Le industrie tessili e di abbigliamento sono molto importanti per l’economia messicana, rappresentano infatti la quarta attività manifatturiera del Paese.

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L'industria delle pellicce

Tutti sanno che per ottenere una pelliccia, la vita di uno o più animali verrà spenta; ma forse non tutti sanno come avviene il procedimento.

Il settore della moda mostra sulle proprie passerelle pellicce fluttuanti, ma la realtà sul come vengono procurate quelle pellicce non è per niente positiva e non ha nulla a che fare con l’immagine che gli attribuisce il sistema moda.
Per ottenere una pelliccia, gli animali vengono scuoiati, ma in molti casi questo atto accade quando gli animali sono ancora vivi, causando sofferenze atroci.

Alcuni dati

0 %
delle pellicce arrivano da allevamenti di animali
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delle fattorie da pelliccia sono di origine europea

Fattorie da pelliccia

Gli animali da cui si ottengono le pellicce vengono tenuti in apposite fattorie: l’85% degli animali da pelliccia proviene da questi stabilimenti.32
Gli allevamenti sono molto simili a quelli degli animali da carne, l’idea di base è la stessa: si ha il bisogno di massimizzare i profitti, e quindi anche lo spazio, il cibo e l’acqua, e di conseguenza massimizzare la salute degli animali. Per tagliare i costi, infatti, gli animali vengono tenuti in piccole gabbie, dove non si riescono a muovere; spesso le gabbie sono accatastate una sopra l’altra.
La vita in gabbia rende gli animali pazzi, molti si auto mutilano e alcuni diventano cannibali nei confronti degli altri animali vicini di gabbia.
Gli animali più comuni che vengono imprigionati in queste condizioni sono volpi, visoni, ma anche cincillà, linci e perfino criceti.
Il 50% delle fattorie da pelliccia si trova in Europa, con 5000 fattorie dislocate in 22 Paesi europei.33

Volpe in gabbia, Network for Animal Freedom/Norwegian Animal Protection Society
Fattoria da pelliccia, Polonia, Jo-Anne McArthur

Gli altri stabilimenti sono in Nord America e diffusi nel resto del mondo, in paesi come la Russia, la Cina e l’Argentina.

Secondo le Nazioni Unite, 1 miliardo di conigli vengono uccisi ogni anno per la loro pelliccia.34
All’interno degli stabilimenti, l’unica preoccupazione dei lavoratori è quella di non rovinare il pelo degli animali, atti crudeli invece sono all’ordine del giorno, come la rottura delle ossa.
Solitamente, quando le gabbie vengono caricate e scaricate dai camion, vengono lanciate, rompendo così le zampe agli animali intrappolati al loro interno.
Per uccidere gli animali, inoltre, si ricorre a metodi economici, che risultano essere anche i più crudeli: soffocamento, scariche elettriche, gas e veleno.

Visone in una fattoria da pelliccia, Spagna, CABALAR/AP

Caccia libera

L’industria delle pellicce uccide gli animali anche disseminando trappole sul territorio. La trappola più comune è la tagliola (trappola con ganasce in acciaio); metodo bandito dall’Unione Europea e in alcuni stati degli Stati Uniti.35 Una volta che l’animale incappa nella trappola, le ganasce si chiudono e la zampa dell’animale viene imprigionata. Spesso con ossa rotte, gli animali si dimenano per cercare di liberarsi: questa lotta può durare ore prima che l’animale muoia. Un’altra trappola crudele è la trappola “conibear”: il suo meccanismo a scatto si chiude direttamente sul collo dell’animale, soffocandolo, e lasciandolo in agonia dai 3 agli 8 minuti prima di morire.

Queste trappole sono sparse sui terreni, quindi qualsiasi animale ci potrebbe incappare, incluse le specie in pericolo di estinzione. Questi animali “non richiesti” che finiscono nelle trappole vengono definiti senza valore (“trash kills”).

Fattorie da pelliccia cinesi

Il più grande esportatore al mondo di pellicce è la Cina: la metà delle pellicce immesse nel mercato statunitense proviene da questo Paese asiatico.36 In Cina infatti nessuna legge sanziona gli abusi che avvengono all’interno degli stabilimenti e non c’è alcuna regolamentazione ambientale.

All’interno delle fattorie, le gabbie degli animali vengono poste all’esterno, senza nessuna protezione dal sole, dalla pioggia, dal gelo della notte e altri fattori. Quando arriva il momento della scuoiatura, gli animali vengono appesi per le zampe o per la coda: molti sono ancora vivi quando il processo incomincia e si dibattono per sfuggire alla terribile tortura. Una volta che la pelliccia viene prelevata, i corpi vengono accatastati sopra a quelli di altri animali precedentemente scuoiati. Generalmente gli animali agonizzano per altri 5-10 minuti prima di morire.
Inoltre in Cina anche cani e gatti vengono ammazzati per il loro pelo: molti di loro hanno ancora appeso intorno al collo il proprio collare. Proprio per questo motivo, molte industrie cinesi di pellicce non applicano sui loro prodotti i cartellini, così che non sia identificabile il tipo di pelliccia.

Procione in gabbia, Zhuravlev Andrey/Shutterstock
Lavoro minorile in una conceria in Bangladesh, Zakir Hossain Chowdhury/Barcroft Media

Pellicce e inquinamento

Come il settore moda, anche questo settore ha un’enorme impatto ambientale. La produzione di un cappotto in pelliccia impiega energie 20 volte superiori rispetto a quelle necessarie per crearne uno di pelo finto.37 Non è possibile nemmeno considerare la pelliccia come biodegradabile, a causa delle troppe sostanze chimiche utilizzate per mantenere il pelo morbido ed evitare che la pelle si deteriori. Queste sostanze chimiche poi, inevitabilmente, entrano nell’ambiente contaminando i fiumi e le acque.

Per ogni animale scuoiato, si ha la necessità di mettere da qualche parte i corpi senza vita, e le feci rilasciate entrano nei corsi d’acqua. Le feci di visone sono molto pericolose, perché contengono fosforo, che in grandi quantità causa scompiglio nelle acque. Nitrati e fosforo entrano poi nelle falde acquifere, inquinando le acque locali.
Non solo gli allevamenti da pelliccia inquinano l’ambiente, ma anche l’aria: in Danimarca 14 milioni di visoni vengono uccisi all’anno, rilasciando annualmente nell’atmosfera 8000 libbre di ammoniaca.38

L’industria delle pellicce è tristemente famosa anche per la “caccia alla foca”.

Ogni anno in Canada il Governo consente ai cacciatori di cacciare i cuccioli di foca, per procurarsi il loro prezioso pelo bianco. Il 95% degli animali uccisi hanno 1-3 mesi di vita, quando l’aspettativa di vita di una foca è in media di 35 anni.39 Una volta prelevata la pelliccia, le carcasse vengono lasciate sul ghiaccio.
In Europa questa pratica è stata bandita nel 2009, vietando la vendita di qualsiasi prodotto di foca; negli Stati Uniti già dal 1972 vige questo divieto.

Abbiamo parlato solo dell’industria della pelliccia, ma fatti analoghi accadono anche nelle industrie di piume e pellame.

Cucciolo di foca, Pierre Gleizes/Greenpeace

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Note

Rimandi bibliografici del testo

1. Black, S., (2008). Eco Chich: The Fashion Paradox, London: Black Dog Publishing Limited.
2-3-4. Greenpeace International, (July 2018). Destination Zero: seven years of Detoxing the clothing industry, Greenpeace International.
5. Lucchetti, D., (2010). I vestiti nuovi del consumatore, Altreconomia.
6-7. Greenpeace International, (July 2018). Destination Zero: seven years of Detoxing the clothing industry, Greenpeace International.
8. Francesco Gesualdi (1999). Manuale per un consumo responsabile, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.
9. Lucchetti, D., (2010). I vestiti nuovi del consumatore, Altreconomia.
10. Pesticide Action Network UK, Pesticide Concernes in Cotton. [online] Available from <http://www.pan-uk.org/cotton/> [Accessed 11 October 2018].
11. Lucchetti, D., (2010). I vestiti nuovi del consumatore, Altreconomia.
12. Pesticide Action Network UK, Pesticide Concernes in Cotton. [online] Available from <http://www.pan-uk.org/cotton/> [Accessed 11 October 2018].
13-14-15. Lucchetti, D., (2010). I vestiti nuovi del consumatore, Altreconomia.
16. Black, S., (2008). Eco Chich: The Fashion Paradox, London: Black Dog Publishing Limited.
17-18. Environmental Justice Foundation, The true costs of cotton: cotton production and water insecurity. [online] Available from <https://ejfoundation.org/resources/downloads/EJF_Aral_report_cotton_net_ok.pdf> [Accessed 4 March 2019]
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21-22. Lucchetti, D., (2010). I vestiti nuovi del consumatore, Altreconomia.
23. The Star, (24 December 2010). Locked doors and lost lives, Volume 9 Issue 49.
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39. Peta., Canadian Seal Slaughter. [online] Available from < https://www.canadasshame.com/about/ > [Accessed 12 October 2018].

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